Viaggio in Russia
Sono stato in Russia negli ultimi quattro mesi per motivi di lavoro: sono regista teatrale e dal 1991 collaboro con i Teatri di Stato Russi mettendo in scena spettacoli nella loro lingua. Quest’anno sono stato a Yaroslavl e San Pietroburgo.
Yaroslavl una cittadina di più di mezzo milione di abitanti che fa parte dell’Anello d’Oro e cioè di quei paesi intorno a Mosca che in qualche modo ne custodiscono la memoria storica e artistica. Ho messo in scena I due gemelli veneziani di Carlo Goldoni nel primo teatro professionale russo, il teatro Volkov.
Dopo una breve pausa in Italia, sono tornato a San Pietroburgo, la città russa più italiana, per mettere in scena Uomo e Galantuomo di Eduardo de Filippo nel Teatro della Commedia sulla Nevski Prospect.
Andare non andare
Quando ho ricevuto l’invito di questi due importanti teatri ero rimasto perplesso: è il caso di partire e magari essere arruolato controvoglia nel gruppo dei sostenitori di Putin?
Sono andato perché credo fermamente nel dialogo tra le culture e che il mio ruolo di intellettuale sia quello di affermare la comune appartenenza di tutti i popoli al genere umano. Se ora c’è un nuovo MURO, voglio essere tra quelli che lo sgretolano.
Lo dico subito: non ho affrontato questa esperienza con l’approccio giornalistico con cui avevo raccontato per Raidue l’inizio dell’era di Putin e l’incontro con il patriarca Alessio. Le note che seguono sono dunque appunti di viaggio, impressioni, sensazioni. Nessuna pretesa di scientificità.
Ma se dovessi racchiudere in una parola la sensazione che ho percepito nelle persone che ho incontrato in palcoscenico come nei supermercati o nei taxi, la parola che meglio definisce l’aria che tira è Attesa. Si vive sospesi tra la paura e la speranza.
La guerra
Della guerra non si parla, è come se ci fosse un lutto, un segreto, una colpa da nascondere. Per non mettere in imbarazzo l’ospite, per non rischiare domande inopportune, per non cadere nella trappola del noi contro voi, la maggior parte delle persone che ho incontrato ha fatto vaghi accenni alla guerra, e in quei casi l’ha chiamata “guerra” e non “operazione speciale”. Alcune delle persone che ho incontrato mi hanno raccontato di essere di origini ucraine e di avere familiari che combattono su opposti fronti. Il conflitto tocca profondamente le coscienze: è una guerra in famiglia.
Per le strade di Yaroslavl pochi manifesti incoraggiano i giovani ad arruolarsi. L’immagine di un soldato in armi (che richiama quelle dei vittoriosi combattenti della seconda guerra mondiale), è accompagnata da una cifra 500.000 Rubli (circa 5000 euro). Il premio per l’arruolamento. Un altro manifesto nel metro di S. Pietroburgo porta la scritta моё дело (moyo delo) e cioè “affari miei”, nel senso di: “è una cosa che mi riguarda”. Paradossalmente il manifesto denuncia il fatto che molte persone considerano la guerra come una cosa che non li riguarda. “È la politica”, mi ripetono con sguardo assegnato, “noi non ci possiamo fare niente”.
A teatro
Il mondo del teatro in Unione Sovietica è stato talvolta una zona franca nella quale per lunghi periodi era consentito affrontare temi che altrove non si potevano neppure menzionare. E questo accade ancora oggi.
Di questi tempi, i repertori dei teatri sono colmi di classici russi, sia testi teatrali che adattamenti da romanzi. Ma nelle pieghe di questa politica culturale autarchica si trovano perle nascoste.
Uno spettacolo, Lettere dal Fronte, basato sulle lettere dei soldati russi dal fronte della Prima Guerra Mondiale, si presta perfettamente all’esaltazione dei valori dell’eroismo e del patriottismo.
Al contrario: lo spettacolo termina con un monologo il cui senso è: siamo morti e a nessuno importa di noi. Segue una specie di rap molto contemporaneo che, senza possibili fraintendimenti, grida: fanculo la guerra! Si badi: questo spettacolo è in scena in uno dei cinque più importanti teatri della Federazione Russa.
Un altro spettacolo mi ha sorpreso, o meglio, mi ha colpito la reazione degli spettatori. Il titolo èстрах (Strakh) cioè Paura. La vicenda è ambientata nell’era staliniana, un professore di sociologia, osteggiato dai comunisti duri e puri, è incaricato di scoprire cosa dovrebbe fare il comunismo per rendere felice il popolo. Dalla sua indagine risulta che l’80% delle persone intervistate vive nella paura e che il restante 20% non ha paura perché ha già tutto. Alla fine di questo monologo l’applauso del pubblico è stato davvero singolare. 684 persone hanno applaudito all’unisono, un applauso liberatorio. Lo spettacolo racconta esplicitamente la realtà nella quale gli spettatori vivono: paura. Paura di perdere quel poco che si ha, paura della bomba, incertezza per il futuro. Tutto andrà bene è una frase che mi stata ripetuta ossessivamente. Tutto andrà bene, una specie di mantra. Se c’è bisogno di ripeterlo così spesso, vuol dire che tutto non va bene. Durante il lock-down lo scrivevamo sulle lenzuola, lo ricordate?
Guardare a Est
Per le strade si aggirano le cosiddette Mercedes cinesi, copie delle auto tedesche, ossimori su quattro ruote. All’Ermitage non ci sono più torme di turisti francesi o inglesi, sostituite dai cinesi. La Russia guarda alla Cina, stabilisce alcune partnership con i paesi del sud del mondo.
Il tentativo di espellere dalla Russia il mondo occidentale, di offrire alla popolazione l’idea di essere accerchiati, odiati e minacciati, fa parte di un’operazione propagandistica sotto gli occhi di tutti. Ciononostante ho avuto l’impressione che i legami che si sono stabiliti con l’Occidente dopo la caduta dell’Unione Sovietica siano così solidi che questo tentativo è destinato al fallimento. Chi ha memoria dell’Unione Sovietica mantiene nel suo panorama mentale la possibilità di essere rinchiusi entro i confini del proprio paese, ma le nuove generazioni non riescono a capirlo. Una ragazzina di 16 anni mi ha dimostrato tutta la sua frustrazione perché non può andare in giro per il mondo come vorrebbe. E preferirebbe venire in Italia piuttosto che andare a Pechino.
La cara Unione Sovietica.
Il 9 maggio, il giorno in cui si celebra la grande vittoria sul nazifascismo, una festività che ha soppiantato quella del 1 maggio, festa dei lavoratori, non c’è stata la marcia del Reggimento degli Immortali, la sfilata di cittadini russi con le fotografie dei parenti morti nella Grande guerra patriottica. “Per questioni di sicurezza”, hanno avvertito le autorità di San Pietroburgo, ma più probabilmente per evitare le proteste dei familiari dei soldati uccisi nel conflitto con l’Ucraina. Sulla Nevski Prospect, davanti al mio teatro, legate ai pali della luce e dell’elettricità garrivano affiancate le bandiere Rosse e quelle della Russia. Ecco l’icona di un processo di rielaborazione culturale che, celebrando la vittoria sul nazismo, assolve l’Unione Sovietica dal suo fallimento, recupera il suo valore e la inserisce nella gloriosa storia patria. Nel recupero della gloria sovietica si inseriscono quindi la voglia di impero, la separazione dal mondo occidentale, il nazionalismo.
Numeri e resilienza.
I punti di forza del popolo russo sono i numeri e la resilienza. “Siamo in tanti, abbiamo vinto la seconda guerra mondiale perché eravamo tanti e la vita umana qui non vale niente”, mi dice una ex ballerina. In effetti la strategia dei generali sovietici era quella di gettare sul fronte milioni di soldati. E, a quanto capisco, anche ora la Federazione fonda le proprie speranze di vittoria sul fatto che le riserve umane russe sono enormi. E, la storia lo dimostra, il popolo russo sa sopportare a lungo le privazioni, le sofferenze, i disagi.
Gli italiani in Russia
per ragioni che mi risultano ancora incomprensibili (!), sono generalmente molto ben accetti. Certo, a San Pietroburgo l’eredità dell’architettura italiana è custodita gelosamente. E’ anche vero che i grandi poeti e scrittori russi hanno vissuto in Italia e alcuni di loro parlavano la nostra lingua. Brodsky leggeva Dante in italiano.
Ogni volta che ricordo a un russo che, durante la seconda guerra mondiale, noi eravamo dalla parte sbagliata, generalmente risponde: “Ma voi italiani siete diversi”. Forse intendono dire che non contiamo, che il nostro è un paese meraviglioso ma tutto sommato ininfluente.
Nel 1990 quando andai a Omsk, una città che era stata chiusa agli stranieri per settant’anni, una vecchia mi fermò per strada e notando i miei jeans urlò: “e tu chi sei? Spia!” Negli anni successivi essere italiano era un titolo di merito (ingiustificato). Eppure oggi, per la prima volta in tanti anni, ho avuto l’impressione di essere guardato con sospetto o addirittura con acrimonia forse perché rappresentante del “mondo del Male, degli occidentali che ci accerchiano e desiderano la fine della nostra patria”. La paura scava nel profondo.
Mantra due
Un’altra frase che mi sono sentito ripetere da persone diverse in contesti diversi è “Quando tutto questo finirà…”. Molti sono convinti che la guerra finirà. Il che è logico perché tutto ha una fine a questo mondo. Il problema è come. E quando, discretamente, ho affrontato questo argomento mi sono sentito rispondere: “ comunque, finirà male. Sia che Putin entrerà su un carro armato a Kiev, sia che Zelenskj pianterà la bandiera in Crimea”.
Graffiti
L’ultima immagine della mia permanenza in Russia quest’anno è il muro dell’androne che conduce alla casa nella quale visse Anna Achmatova, la grande poetessa che ha raccontato il popolo russo con versi indimenticabili. Ebbene, sulle pareti sbrecciate e luride, centinaia di graffiti: le parole di Josif Brodsky, di Marina Tsvetaeva, di Dostoevskij. Centinaia di persone hanno preso matite, pennarelli o chiodi appuntiti per testimoniare il loro amore per la poesia. M’è sembrato un urlo possente, il grido di un’umanità dolente. Quella è la Russia con la quale voglio dialogare, quella Russia che non rientra nella nostra percezione manichea provocata dall’invasione dell’Ucraina.