Riflessioni sulla Flotilla

Pescando brutalmente da Wikipedia:
La Global Sumud Flotilla , o GSF, è un'iniziativa umanitaria internazionale portata avanti da alcuni settori della società civile nella seconda metà del 2025 con l'obiettivo di rompere il blocco israeliano della Striscia di Gaza, rifornire di viveri e medicinali la popolazione palestinese affetta dalla carestia come conseguenza dei combattimenti nella Striscia, e stabilire un corridoio umanitario.
La flottiglia, composta da più di 50 barche e partecipanti provenienti da 44 paesi, è salpata a fine agosto con convogli in partenza dai porti di Barcellona, Genova, dalla Tunisia e da Catania (7 settembre) e dal porto greco di Siro (8 settembre), con arrivo previsto per metà settembre.
Fine del pescaggio brutale da Wikipedia, arriviamo a oggi.
La flottiglia, in queste ore, sta per uscire dalla zona di tutela delle acque internazionali e, di conseguenza, le fregate battenti il tricolore non possono più proseguire nella missione di protezione delle imbarcazioni e dei cittadini a bordo senza rischiare di incappare in una dichiarazione di guerra. Questo perché, di fatto, le acque territoriali di Gaza sono, fino all’auspicabile e urgente riconoscimento dello Stato di Palestina, considerate israeliane.
Infatti, secondo il diritto internazionale del mare, in particolare la Convenzione di Montego Bay, ogni Stato costiero ha diritto a dodici miglia nautiche di mare territoriale e fino a duecento di zona economica esclusiva. Ma questo vale solo per Stati pienamente riconosciuti e sovrani. La Striscia di Gaza non è uno Stato indipendente, ma parte dei territori palestinesi ed è soggetta a una situazione particolare: l’Autorità Nazionale Palestinese non ha mai avuto un controllo effettivo sulle acque e dal 2007 il governo di fatto è esercitato da Hamas, che però non gode di riconoscimento internazionale.
Dal punto di vista pratico, fin dal 1967 e in maniera ancora più rigida dopo il 2007, è Israele a esercitare il controllo militare e materiale sulle acque davanti a Gaza. È la marina israeliana a stabilire fino a che distanza, ad esempio, i pescatori palestinesi possono spingersi: in certi periodi solo tre miglia, in altri sei, a volte dodici, sempre in base a decisioni unilaterali e variabili di Israele.
Posizione scomoda e intollerabile? Sicuramente.
L’ONU e gran parte della comunità internazionale considerano invece che quelle acque dovrebbero essere palestinesi, perché rientrano nel territorio che in prospettiva costituisce il futuro Stato di Palestina. In pratica, però, il controllo rimane israeliano. E quindi, a maggior ragione in questo momento storico, la situazione è più tesa che mai.
Che succederà?
Partirei da una riflessione generale. Quando ho visto le immagini di Genova, l’intervento della sindaca Salis e la potente risposta della comunità civile del nostro Paese, non ho potuto fare altro che accogliere con partecipazione e plauso l’iniziativa. Perché sì, esiste a mio parere ancora una parte emotiva e disobbediente che ogni cittadino dovrebbe frequentare, coltivare e rendere manifesta. In quanto libero cittadino, sottolineo.
Un altro paio di elementi che però non si possono ignorare sono legati a una lettura pratica e concreta della questione. A livello personale, di fronte al variegato numero di tasselli che ha formato il mosaico di questa iniziativa civile, non posso dire di avere posizioni del tutto simmetriche rispetto ad alcune individualità che ne hanno preso parte. Parliamo, nel mio specifico, del mondo gravitante intorno al pianeta Greta Thunberg e ai suoi satelliti ed eccetera, eccetera... (Metto “eccetera” perché adesso non ho alcuna voglia di approfondire questo aspetto). Allo stesso modo, mi trovo invece più vicino alle posizioni che hanno mosso i portuali di Genova, e qui ci metto un altro “eccetera” per il motivo già detto.
In poche parole, quello della flottiglia potrebbe sembrare un caravanserraglio, nella sua accezione più nobile, di varie realtà e visioni che operano in una zona lasciata “vuota”.
Perché dico “lasciata vuota”?
Perché da questo punto di vista la Storia ci insegna qualcosa: laddove si creano dinamiche di urgenza sociale, civile, ideologica, e queste non trovano una chiara e delineata adesione a una struttura esistente, il rischio è quello di creare, nell’atto di “rivoluzione” o “disobbedienza”, una serie di non linearità e quindi intoppi. E ci può stare, sia chiaro. La mia non vuole essere una critica fine a sé stessa. Però di fatto ci siamo sentiti così, orfani di una presa di posizione strutturale a monte.
Abbiamo assistito prima all’orrore del 7 ottobre, poi alla risposta disumana di Israele nei confronti di Gaza. Abbiamo disquisito per un anno intero sul fatto se fosse corretto o meno usare il termine “genocidio”, fino a che, quasi senza ammissione esplicita, è diventato termine quotidiano. Abbiamo assistito a posizioni a corrente alternata da parte dei governanti mondiali, in particolare a un’Europa che per un tempo considerevole non è riuscita a costruire un pensiero elementare comune sulla questione (poi l’ha fatto, ma come si dice, “grazie al cazzo”), e ancora oggi si continua a giocare sui labili confini della terminologia, dell’analisi capziosa e del facile sillogismo. Anche qui sarebbe inutile approfondire tutte le posizioni, o meglio, le non-posizioni, cosa che, in un passato neanche troppo lontano, era impensabile: basti riprendere le prese di posizione sulla questione palestinese dei governi italiani della cosiddetta Prima Repubblica (vedi Craxi, Pertini, Aldo Moro).
Fatto sta che in questo vuoto, in questa sostanziale latitanza di posizioni, trova legittimo spazio l'encomiabile iniziativa della flottiglia.
Doverosa precisazione: esistono, per fortuna, organizzazioni di stampo non governativo, professionisti, che intervengono in scenari simili, come quelle legate alle Nazioni Unite, Medici Senza Frontiere, Emergency, Save the Children e molte altre. Organizzazioni che, tra le altre cose, vengono sovente prese di mira e trascinate nel tritacarne della retorica propagandistica, senza alcuna reale capacità di distinzione o analisi. Quando parlo di “zona lasciata vuota” mi riferisco a un vuoto lasciato dall’apparato governativo, politico e, di conseguenza, popolare, civile nel senso più stretto del termine.
Tornando a noi...
La flottiglia però è effettivamente utile come gesto prettamente umanitario? No, perché parliamo di pochissime risorse alimentari a fronte di una crisi gigantesca.
Ha un valore simbolico?
Sì, dal momento in cui la società civile si fa “simbolo” contro qualcosa che ritiene sbagliato.
Ha portato ulteriore attenzione negli equilibri mediatici legati a Gaza? Senza dubbio sì, perché l’informazione sta seguendo con attenzione la vicenda, che come immaginabile si sta trasformando più in un terreno di schermaglia che in un’occasione di analisi.
Potrebbe essere paradossalmente dannosa dal punto di vista diplomatico?
Purtroppo sì, perché oggi si possono immaginare sostanzialmente due scenari pericolosi. Nel primo il governo israeliano attacca bellicamente la flottiglia: ne conseguirebbero indignazione e la necessità di intervenire con maggiore durezza nei confronti di Bibi e della sua accolita di governo. Questo però difficilmente accadrà.
Più probabile, a rigor di logica, che la marina israeliana blocchi la flottiglia, metta in fermo le imbarcazioni e gli attivisti. A quel punto i governi dovranno muoversi per liberare i propri concittadini… e questo, a mio apparente cinico avviso, sarebbe lo scenario più sconveniente, perché significherebbe dover spendere un “gettone diplomatico” nei confronti di Israele, che ci metterebbe nelle condizioni di non poter più fare (semmai fosse mai successo) la voce grossa. Come dire: cornuti e mazziati... ma perlomeno vivi.
In questa situazione è difficile immaginare un vero scenario win/win. (perlomeno per noi)
Quindi, per sillogismo, questa missione potrebbe creare più problemi che soluzioni? Domanda legittima.
Ma è anche vero che questo ragionamento trova un punto di rottura fondamentale: se la flottiglia non fosse mai esistita, si sarebbe effettivamente mosso qualcosa di concreto a livello diplomatico e geopolitico? Questo invece purtroppo non lo sapremo mai.
Però trovo anche “sbagliato”, passatemi il termine, che di fronte a un atto di disobbedienza – come ho detto prima – si debba poi essere immediatamente richiamati a un atto di “responsabilità”. Se disobbedisco, disobbedisco. Se lo faccio c’è un motivo, accetto di pagarne le conseguenze e soprattutto lo faccio perché non riconosco l’autorità morale e politica di chi, appunto, in nome della “responsabilità”, non si è mai realmente mosso in quella direzione. Non credo quindi che, come troppo spesso sento ripetere da politici, giornalisti e opinionisti di varia natura, si possa ridurre tutto a un gioco di causa-effetto se non quello strettamente pratico. Lo ripeto per la merdesima volta: questo vale al di là delle posizioni, della ragione e del torto, del bene o del male.
Quello che certamente possiamo dire e ribadire è che se la coscienza civile, prima individuale e poi collettiva, si sostituisce alle proprie legittime rappresentanze, allora il problema sta proprio in queste ultime.
E quello che sappiamo per certo è che qualcosa succederà, e anche piuttosto presto.
Non ci resta che stare a guardare, per l'ennesima volta.