Le paralimpiadi e l'harakiri del politicamente corretto

Le paralimpiadi e l'harakiri del politicamente corretto

Sono iniziate le paralimpiadi e pochi se ne sono accorti. Ogni tanto, a margine di un telegiornale, arriva un breve servizio che ci parla dell'evento dedicato ai Giochi olimpici per chi ha disabilità fisiche, oppure un veloce titolo sui quotidiani online per qualche medaglia accaparrata. Non ha destato più di tanto scalpore nemmeno la presenza di un'atleta transgender (stavolta per davvero, mica come il bluff alle olimpiadi di pugilato), l'italiana Valentina Petrillo che ha corso i 400 metri nella categoria T12 per persone con disabilità visive, senza però riuscire a qualificarsi per la finale (ma ci sono altre gare in cui competerà, tempo al tempo). Forse un buon segno che il transgenderismo non faccia più notizia - nemmeno quel poverino di Pillon le ha dedicato una riga (è bastata la sparata che le ha dedicato nel 2021...) -; forse siamo solo saturi di quello squallido, squallidissimo chiacchiericcio sull'algerina Imane Khelif che ci ha intossicato l'estate e l'umore; o forse, in periodo di finanziaria a debito, taglio alla spesa sociale, minacce di secessione, femminicidi, stragi di famiglia, genocidi, cambiamenti climatici, potenziali colpi di stato al di là dell'Atlantico, ministri che infilano delle bocciute bionde di Pompei nell'organizzazione del G7 provocando fughe di dati sensibili, l'ascesa dei neonazisti in Turingia, attentati terroristici, Osimhen al Galatasaray...forse non c'è più spazio per occuparsi delle altrui scelte di vita (per di più, nel caso specifico delle competizioni sportive, pienamente conformi agli standard e alle regole). Sì, certo, c'è sempre in agguato quella serpeverde di J.K. Rowling, la TERF (femminista radicale trans-escludente) della prima ora che non si è fatta sfuggire questa ghiottissima occasione per dire la sua su X: “Perché tutto questo odio verso l'ispiratrice (-tore??, per Rowling mi sembra più adeguato, ndr) Petrillo? La comunità degli imbroglioni non ha mai avuto tanta visibilità! Imbroglioni dichiarati e orgogliosi come Petrillo dimostrano che l'era della vergogna del cheat-shaming è finita. Che modello da seguire! Io dico di restituire le medaglie a Lance Armstrong e andare avanti”. Certo, essere transgender è come doparsi. Certo, certo... comunque Rowling si conferma una grande affabulatrice fantasy, prendiamone atto.

Ma non è questo l'oggetto della riflessione, anche se la precedente divagazione mi è parsa in qualche modo molto ghiotta. Il topic primario, infatti, è l'infantilizzazione della disabilità che praticano i media e il sentimento di pietismo nella sua narrazione. Sfortunati, poverini, assimilabili a teneri cuccioli; incapaci di concepire il male, esempi di virtù e resilienza (anche se forse questa ultima parte è vera). Che malvagio Venditti a riprendere uno spettatore in carrozzella, un po' di sensibilità! I disabili come ce li restituisce la narrazione mainstream sono uomini e donne stereotipizzati in un'immagine di fragilità da osservare con riverenza perché questa pratica ci aiuta a distanziare il confronto e a mondare un infondato senso di colpa per i nostri privilegi. Quest'ultimo, poi, un evidente retaggio cattolico. E in un'epoca di -ismi e politicamente corretto, appare il termine “abilismo”: “Lo stigma e la discriminazione nei confronti delle persone disabili e, più in generale, il presupporre che tutte le persone abbiano un corpo e una mente abile”, dice Wikipedia [Nota a margine: l'abilismo è assimilato anche all'omobitransfobia, giusto per riallacciarci a Valentina Petrillo]. Per quanto indiretta, la compassione e il pietismo praticati da una certa narrazione che invece si crede inclusiva è una delle forme di discriminazioni/abilismo più subdole e fraudolenti. La commiserazione della persona disabile, l'ammantare di eroismo una vita di ostacoli ed elevarla a modello ispirazione (è l'inspiration porn, concetto messo a punto dall’attivista Stella Young e che serve per “oggettivare le persone disabili a beneficio delle persone non disabili”) è l'avvilimento di una persona oggettivando e mercificando la diversità che si pretende invece di trattare con le pinze.

Vale la pena ricordare l'ovvio: l'esperienza della disabilità non è una e una sola soltanto. È una soggettività. C'è chi la vive male, prigioniero di una condizione che la società in senso lato non perde occasione di ricordarti e chi, invece, la disabilità l'ha disabilitata. Penso a Marina Cuollo, scrittrice, speaker radiofonica, autrice di podcast e content creator che vive di ironia e autoironia (basta il titolo del suo primo libro a capirlo, A Disabilandia si tromba); Jacopo Melio, giornalista, scrittore, politico e attivista per i diritti umani e civili (“Io non sono la mia carrozzina, così come nessuno sarà mai il suo paio di scarpe. Ognuno di noi è le proprie abilità, non le proprie difficoltà”); ma anche Bebe Vio, celeberrima schermitrice (pur prestata come “eroica” testimonial a multinazionali dell'energia). Ma resta il fatto che celebrare la disabilità come una conquista – anzi, come la capacità di trasformare un ostacolo in una conquista – produce un effetto contrario e avverso a ogni buonsenso. In poche parole, il politicamente corretto sta facendo un harakiri epico.

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