Pace, terra e dignità (La storia del piccolo Ruslan)
Quando la mamma e il papà diedero la notizia che sarebbero andati fuori città a trovare il nonno e la nonna, il piccolo Ruslan iniziò a saltarellare per tutta la casa, cantando e mettendo in rima tutte le attività che avrebbero potuto fare in quel finesettimana. I due genitori si scambiarono uno sguardo, come a volersi palleggiare la responsabilità di dover affrontare quella delicata questione che per troppo tempo avevano deciso di rimandare. D'altronde quello per Zaporiziha sarebbe stato un viaggio lungo, avrebbero avuto il tempo di raccontare a Ruslan la verità. Il paesaggio scivolava via rapido mentre il bambino, con lo sguardo pieno di meraviglia, socchiuse gli occhi per proteggersi dalla luce accecante. Davanti a lui si stendevano campi di grano dorato che sembravano allungarsi fino all'orizzonte, dove il giallo brillante si fondeva con l'azzurro del cielo. "Papà! Mamma! È la nostra bandiera!", esclamò il piccolo, con un entusiasmo che fece sorridere i genitori, che scambiatosi uno sguardo affettuoso, strinsero le proprie mani sulla manopola del cambio. Il viaggio trascorse tranquillo, così tranquillo che mamma e papà decisero di non rivelare il vero motivo della gita. Il nonno era anziano e malato, e quella sarebbe stata probabilmente l'ultima volta che Ruslan l'avrebbe visto. Perché rovinare un momento così sereno con una dose di dura realtà? Ruslan aveva solo otto anni ed era ancora un bambino. A differenza delle due generazioni che l'avaveno preceduto, avrebbe imparato ad affrontare le brutture della vita con i giusti tempi, seguendo il naturale corso delle cose, senza traumi. Cosciente di questa convinzione la famiglia di Ruslan imboccò il lungo viale che porta alla casa dei nonni. Era una casa di campagna, dignitosa, con un modesto appezzamento di terra dove razzolavano liberi animali da cortile che Ruslan, appena sceso dalla macchina, non riuscì a contenere la tentazione di rincorrere. Sul volto della nonna, ferma sulla porta di casa, si disegnò un sorriso sincero, commosso: in quel piccolo quadro che aveva appena preso forma davanti ai suoi occhi c'era tutto quello che un giorno, tanti anni prima, non avrebbe avuto neanche il coraggio di sognare. In casa c'era un odore gradevole, come di fiori appena schiusi misto al profumo della zuppa che senza fretta sobbolliva in cucina. Con un cenno del capo la nonna indicò la stanza da letto. Così la mamma e il papà scortarono Ruslan lungo il corridoio fino a una porta chiusa. A quel punto, il bambino si girò verso la madre con uno sguardo interrogativo. Lei si inginocchiò davanti a lui, gli accarezzò il viso e gli sussurrò all'orecchio che il nonno lo stava aspettando. Ruslan sulle prime sembrò smarrito, cercò lo sguardo del padre che a sua volta lo guardò, annuì e senza dire una parola aprì la porta della stanza. Gli occhi di Ruslan si fecero grandi, come a intuire il peso simbolico di quel rituale di iniziazione che stava per consumarsi. Il cuore cominciò a battergli forte in petto, tirò su col naso e con passo deciso entrò nella stanza; si voltò per un attimo, solo per notare che mamma e papà non erano più lì con lui, poi si avvicinò al letto, dove il nonno, con il viso emaciato segnato dalla malattia, lo accolse con un sorriso amorevole. -Come ti sei fatto grande Ruslan. Guardati, sei un uomo. Ruslan, rinvigorito da quelle parole si mise sull'attenti. Il nonno accennò a una risata bonaria. -Quanti anni hai adesso?- chiese complice il nonno. -Otto anni.- Rispose prontamente Ruslan. -Caspita, otto anni. È un'età importante, piccolo mio. Ruslan abbassò lo sguardo per un istante, poi lo sollevò di nuovo e si ritrovò a fissare le iridi azzurre del nonno. Quegli occhi, che spiccavano come lucciole tra quelle palpebre pesanti e tumefatte, sembravano voler scrutare l'anima del nipote, come se cercassero di catturarne l'essenza. Poi Ruslan prese coraggio: -Nonno, tu stai morendo, non è vero? -Chi te l'ha detto?- rispose il nonno senza alcuna inflessione. -I nonni muoiono, me l'hanno detto i miei compagni di scuola. Il nonno si fece serio, poi accennò un sorriso e si avvicinò al nipote. -Tutti moriamo, Ruslan, ma la vera domanda è: chi può dire di aver vissuto veramente? Ruslan questa volta cedette e abbassò lo sguardo. -Tu lo sai grazie a chi sei vivo? Lo sai grazie a chi tutti noi siamo qui, oggi?- incalzò il nonno. -Grazie a Dio.- rispose Ruslan tenendo lo sguardo basso. -È vero, ma Dio non può impedire agli uomini di morire.- -Questo non è giusto.- balbetta Ruslan cercando di trattenere il pianto. -Ehi, ragazzo! Non piangere! Quella che ti sto dicendo non è una cosa brutta. Vuol dire che noi uomini abbiamo il potere di togliere la vita, certo, ma anche di difenderla. Abbiamo il potere di fare la guerra, ma anche la pace. -Tu hai fatto la guerra, nonno? -Sì. -E anche la pace? Davanti all'ingenuità di quella affermazione il nonno venne attraversato da una vampata di calore, trattenne la commozione e poi si tirò su accomodandosi sulla testiera del letto. -Lascia che ti racconti una storia, Ruslan. La nostra storia. E così il nonno incominciò a raccontare. Estate 2024, La guerra scoppiata dopo l'invasione russa in Ucraina si stava trasformando in un massacro sempre più disumano. Le fazioni, ormai esauste, combattevano da due anni in un conflitto dal risultato incerto. Da un lato, la Russia di Putin; dall'altro, noi, sostenuti dai nostri alleati, ma di fatto soli. In tutto il mondo aleggiava il timore di una guerra nucleare, il terribile scenario dell'armageddon. Nonostante tutto, il mondo sembrava diviso tra chi voleva un'escalation del conflitto e chi, invece, desiderava la nostra sconfitta. I negoziati erano ormai un'illusione, e senza armi saremmo stati massacrati; ma un significativo coinvolgimento militare dei nostri alleati rischiava di portare il mondo verso una terza guerra mondiale. Era una situazione disperata. La gente moriva ogni giorno, la situazione politica si faceva sempre più complessa e intricata. Qualcuno diceva che la situazione si sarebbe potuta evitare prima ancora che il conflitto nascesse, altri la definirono una variabile impronosticabile prima e inevitabile dopo. Nell'estate del 2024, ci aspettava uno degli scontri più cruciali. Uno scontro frontale con il nemico su campo di battaglia. Tutti sapevamo che sarebbe stato un vero massacro. I numeri erano contro di noi; eravamo inferiori in termini di truppe e di equipaggiamento, ma questa era davvero la nostra ultima chance. Una sconfitta avrebbe significato l'invasione totale da parte del nemico, il coinvolgimento delle forze alleate, e quindi l'inevitabile scoppio di un conflitto mondiale. Tutto questo avveniva nel silenzio assordante della confusione politica a livello internazionale. E tuo nonno era lì, poco più che un ragazzo, con il fucile in mano, a poche ore da quello che sarebbe stato il più grande massacro degli ultimi decenni, con la consapevolezza che pochi di noi sarebbero tornati vivi. Il campo era una distesa di terra e polvere, punteggiata di edifici distrutti e crateri di bombe. Il cielo era grigio e cupo, proprio come il nostro umore. A poche centinaia di metri c'era la linea del fronte, quella che avremmo dovuto forzare in massa; attraverso i binocoli, vedevamo le bandiere russe, e i loro binocoli brillavano alla luce mentre ci osservavano a loro volta. D'un tratto, il fragore delle bombe. Un segnale. E senza rendermene conto, mi sono ritrovato in un mare di commilitoni, tutti con il fucile spianato, mentre correvamo sotto una pioggia di pallottole sibilanti. Dall'altra parte, c'erano loro: mezzi blindati, soldati a piedi, artiglieria nelle retrovie. Le urla della carica si fondevano con quelle del dolore, mentre i boati delle esplosioni, da entrambe le parti, creavano una chiassosa sinfonia lugubre. Il sangue mi pulsava nelle tempie, come se stessero per esplodere, e l'adrenalina, insieme alla paura, montava sempre di più. Sapevo che sarei morto da lì a poco, ne ero consapevole. Ero anche certo che non avrei sentito dolore, perché il mio cuore era pieno di pensieri per tua nonna e per la tua neonata mamma, che mi aspettava a casa e non potevo farmi sopraffare dall'idea che non l'avrei più riviste. Ormai tra noi e il nemico c'erano solo poche centinaia di metri. Sentivo le loro voci, il loro odore, la loro paura. Potevamo quasi guardarci negli occhi poco prima che si spegnessero sotto una pioggia di pallottole. Era l'orrore allo stato puro. Poi, improvvisamente, una voce tuonò sopra tutto quel frastuono: "Fermi!". La terra iniziò a tremare, e tra noi e il nemico si aprì una voragine. Ci fermammo tutti, guardandoci l'un l'altro, cercando di capire da dove venisse quella voce. Anche i nostri nemici si fermarono, altrettanto confusi. Sul campo di battaglia scese il silenzio, e poi sentimmo: "Pace! Terra! Dignità!". Non potevo crederci: dalla voragine emerse lui, nipote mio, proprio lui: era Michele Santoro. E mentre fluttuava nell'aria, si voltava da un lato all'altro del fronte, imponendo le mani per fermare il massacro. Ricordo la voce di un superiore che dalle retrovie gridava minacce, promettendo di fucilarci se ci fossimo fermati. Ma quando vide quella scena, si tolse l'elmetto, cadde in ginocchio e lasciò cadere il suo fucile. Michele Santoro si avvicinò a lui, gli accarezzò il viso e si rivolse a tutti noi: "Basta violenza! Basta sfide militari! Dove vai, Europa!? Che ti è successo?! Europa, madre di popoli e nazioni!?". Poi si rivolse anche al nostro nemico: "E voi!? Basta! Non è forse meglio la pace!?". A quella domanda, ci fu un coro di mani che colpivano le fronti: migliaia di persone, forse per la prima volta, realizzavano quanto fossero importanti quelle parole. Dall'altra parte, un superiore esclamò: "È Michele Santoro! Fate quello che vi dice!", e come in un'enorme coreografia di nuoto sincronizzato, tutti i russi deposero le armi. Anche noi ci guardammo negli occhi, incrociammo lo sguardo del nostro superiore, che, con la voce rotta, ci ordinò: "Santoro ha ragione.". E così anche noi facemmo cadere le nostre armi. A quel punto, Michele Santoro estrasse da dietro la schiena un enorme tridente d'acciaio e lo agitò in aria, creando un turbine che risucchiò tutte le armi nostre e del nemico, facendole cadere nella voragine, che si chiuse subito dopo. Per la prima volta da anni, eravamo tutti disarmati. Ci guardammo gli uni con gli altri, e poi una forza misteriosa ci spinse verso il nemico; non era una spinta d'ostilità, ma una spinta fraterna, solidale. Anche loro si unirono a noi, e ci ritrovammo al centro del campo di battaglia, abbracciandoci. Michele Santoro ci benedì, e poi, in punta di piedi, se ne andò. Fu un miracolo. Festeggiammo tutta la notte, uniti nel segno della fratellanza dei popoli. Bevemmo, ballammo fino a tardi poi, preso un mezzo dell'esercito, mi fiondai a casa da tua nonna, che mi aspettava con tua mamma in braccio. Mi venne incontro piangendo, e senza neanche asciugarsi le lacrime, mi abbracciò e disse: "Sono usciti gli exit poll, Santoro è al quattro percento, abbiamo vinto!". È vero, avevamo vinto. Ma non fummo solo noi ad avere vinto, fu tutta l'umanità. Ruslan se ne stava lì, al bordo del letto del nonno, a bocca aperta. -Nipote mio vorrei che un giorno tu provassi almeno la metà della felicità che provai in quel momento. Io ormai sono sulla via del tramonto, ma guardandoti negli occhi vedo quella stessa luce che avevo io alla tua età. Ora va, nipote mio, torna dalla mamma, dalla nonna e dal papà, dagli un bacio e digli che questo bacio è il bacio di Michele Santoro. Vai!- Ruslan sorrise e uscì dalla stanza chiamando a gran voce la mamma, la nonna e il papà. Il nonno lo seguì con lo sguardo poi, una volta solo, spostò lo sguardo verso la finestra: stava facendo sera, il cielo azzurro si tinse di rosa e di verde, poco prima che il sole sparì dietro le montagne. Che spettacolo meraviglioso. Così con le ultime energie disse tra sé: "Abbiamo vinto...". Poi chiuse gli occhi, sorrise e morì.