La moralità dell'autodeterminazione
Per assunto, la legge regola il vivere comune e relega la moralità a fatto privato. Ma si sta (ri)affacciando una tendenza a lungo latente: quella dello stato moralizzatore, che attraverso il diritto penale – quello più temibile che, a differenza del civile, non opera attraverso sanzioni, ma con pene esemplari – regola con la paura dell'infrazione l'equilibrio delle condotte. E quindi i rave, gli aborti, il fine vita, il consumo di sostanze stupefacenti (su questo, poi, viene da dire con lo stand-up comedian Giorgio Montanini: perché vietare qualcosa che è stupefacente se, per definizione, foriero di esperienze stupefacenti?). La moralità, quindi, viene legiferata e non obbliga più “in coscienza”, ma per diritto inviolabile. E allora dove va a finire il libero arbitrio? Qual è il confine tra il Sé e lo Stato? E su quali presupposti, se non il controllo, lo Stato opera un'ingerenza nel privato del cittadino?
La morale, poi, si sposa con il tabù, che a sua volta è legato a sessualità e morte, i grandi rimossi della società contemporanea, e lo Stato si erge a difensore delle colonne d'Ercole oltre le quali, se valicate, si sconfina nel mondo degli espulsi e dei reietti. È la legge sporcata di senso di colpa e vergogna: la donna che abbandona il bambino appena nato, il dipendente con qualche grammo di cannabis, la vittima di stupro che decide di abortire il frutto di un rapporto non consenziente, il tetraplegico che vuole porre fine alla sua sofferenza. Tutti in un girone indistinto in cui pena è la vergogna, l'isolamento, l'impossibilità di pieno reinserimento.
Un tempo, colpiti in flagrante, esisteva la pubblica gogna: i condannati venivano fatti sfilare tra due ali di folla con un'immagine sacra a coprire la visuale come ultima possibilità di redenzione in punto morte mentre il popolo dileggiava e scherniva più per esorcizzare la paura di ritrovarsi, un giorno, su quel carretto, che per indignazione. Oggi abbiamo i media e le istituzioni, che alzano il dito infuocato in un autodafè indiscriminato in nome della giustezza e della costumazione. Stavolta, però, nessun santo a schermare i condannati dall'orrore del dileggio: sovraesposizione esemplare, ben ti sta.
Ma non sarebbe, piuttosto, questo atteggiamento moralizzatore a uccidere a sua volta la morale? Non sarebbe invece più morale lasciare che si possa disporre liberamente della propria volontà, “in coscienza”? Lo Stato non dovrebbe, piuttosto, tutelare anziché punire la volontà dell'individuo?
La libertà di decidere “in coscienza” è una grande forma di emancipazione, la stessa che continuamente viene negata in nome della preservazione di un presunto ordine pubblico, anche questo stabilito arbitrariamente da un decisore ormai non più rappresentativo della sovranità popolare. L'ostacolo al libero arbitrio sui propri corpi è una parte necrotizzata della democrazia, un percorso alla deriva delle libertà che i contemporanei percorsi amministrativi non fanno altro che accelerare.
Non ci sentiremo mai immorali solo perché ce lo dite voi, “in coscienza” noi ci opponiamo a un potere che dimostra i suoi limiti e la sua incapacità di saper andare oltre il divieto e la proibizione.