La capalbietà degli intellettuali

La capalbietà degli intellettuali

Questa estate, come tutte le estati, è bene idratarsi ed evitare di uscire nelle ore più calde. Per i più fortunati, quelli abbastanza abbienti da riuscire a fare un bagno al mare o un'escursione in montagna (e anche qui, senza dimenticare di applicare una protezione solare), è consigliabile chiudere bene porte e finestre di case sguarnite da sistemi antifurto prima di partire alla volta delle ferie. I topi d'appartamento sono sempre in agguato. Ma ci sono ladri e ladri. Cantava De Andrè: “Ora sappiamo che è un delitto il non rubare quando si ha fame”, e insomma, spostando i termini dell'affermazione, se scassi la serratura e ti fai uno spaghetto aglio e olio a casa mia quando non ci sono è ok (ma i fabbri si fanno pagare come i primari, quindi se hai fame aspettami e bussa al citofono, così facciamo prima). E su questa scia procede anche una sentenza della Corte di Cassazione risalente al 2016, che assolve il reato in caso di bisogno primario. Poi, ovviamente, ci sono anche altri profili di mano lesta, quelli che primariamente hanno bisogno di un pc, di una catenina o di un orologio, magari anche di un televisore. Qui è un po' più complicato accordarsi per un appuntamento, perché le rate del portatile sono lungi dall'essere saldate. Anche perché dai, parafrasando Elio Petri, la proprietà non sarà più un furto, ma mica siamo in una socialdemocrazia (non che lì si assolvesse il reato ma, ça va sans dire...). Quindi vai a lavorare e comprati il tuo di pc. Però c'è anche un altro profilo di ladro, che ci (ma a chi?) fa un sacco di simpatia perché legge i libri. Il fatto è recente ma ha dei precedenti, però ogni volta è come se fosse la prima. A Roma, nel savoiardo quartiere Prati, un ladro entra in un appartamento e si fa fregare sul fatto dall'anziano proprietario, rientrato all'improvviso, perché si è messo a leggere Gli dèi alle sei. L'Iliade all'ora dell'aperitivo di Giovanni Nucci. È proprio vero che con la cultura non si mangia, perché il suddetto “38enne italiano”, così sinteticamente descritto dai cronisti, è stato arrestato dalle forze dell'ordine senza riuscire mettere a segno il colpo (con lo ius scholae potremmo immaginare chiunque altro di una qualsivoglia nazionalità). Comunque, anche in questo caso,vai a lavorare e comprati la tua di copia di Nucci (magari sarai abbastanza fortunato da trovarne una copia nella biblioteca del luogo di detenzione. Quale, poi, nell'ordine del reato, ce lo dirà Nordio). Questo è il fattarello di evidente scarso interesse, ma proprio in virtù di ciò è stato raccontato e riraccontato all'inverosimile, per coprire buchi di informazione (sic!) o perché non si è à la page senza un commento (pretestuoso) sull'argomento. Però il fattarello ha incrociato fortuitamente un dato, coevo e questo sì interessante: uno studio ha rivelato che in Italia solo una sola persona su tre sopra i sedici anni legge un libro all’anno (il nostro ladro, abbiamo detto, è un trentottenne italiano, rientra nella casistica). Invece Concita (De Gregorio), su la Repubblica di venerdì 23 agosto, mette insieme le due cose e dice la sua: “Mi sono commossa a leggere del ladro che si è seduto sul letto della casa che stava svaligiando per leggere l’Iliade raccontata da Giovanni Nucci e così si è fatto prendere. Ve lo avevo detto, qui, che quel libro è bellissimo. Andrà in galera lo stesso il ladro, certo. Magari però alza la media” (ma forse è proprio lui a fare media, chissà). Di commovente c'è poco e la commozione su queste vicende è così salottiera, così infeltrita, così fastidiosa. Non tanto per la cosa in sé, per il ladro fessissimo che si è fermato a leggere invece di inguattare il tomo nel bottino, ma per quella classe intellettuale che pantomima una lacrimuccia sulle rive di Capalbio all'idea che qualcuno legga. Invece Concita, infatti, che sono sicura sia una buona persona in buona fede, chiosa con questo estratto una filippica sulla pigrizia dei suoi lettori (ma direi anche sui lettori in senso lato) che non si prendono nemmeno la briga di fare un abbonamento al quotidiano. E quando prova a dissipare le lamentele sui pezzi a pagamento spiegando che “tutta una filiera di persone che realizzano un giornale, dal centralino alle persone delle pulizie (che), naturalmente, non lavorano gratis”, ci tiene a precisare con una certa stizza che lei e “le persone che lavorano per quell’azienda editoriale devono essere pagate, me compresa per quanto pochissimo”. Nel merito questo è verissimo: è lavoro e il lavoro va pagato, sempre. Nel metodo è davvero sbagliato: fare la morale, per giunta a chi già il giornale lo acquista e lo legge, è sempre sbagliato. Dovrebbe, questo, invogliarmi ad acquistare un libro o un giornale e a leggerlo? Farmi venire il senso di colpa per un analfabetismo di ritorno che monta come uno tsunami sul mio futuro? È una questione francamente di classe, in un'illusoria epoca di flat class in cui, invece esistono i ricchi e i poveri e dei poveri ci vergogniamo sempre un po' perché ci fanno fare brutta figura. È questo quello che trasuda da quegli scranni: la paura della mediocrità altrui. Viene voglia di diventare delle zappe, davvero. A latere, poi, quando parla del suo misero compenso, Invece Concita sembra un po' Piero Fassino che difende il suo onorario di parlamentare (lo stesso che, ironia della sorte, s'è inguattato il profumo al duty free dell'aeroporto). Allora Concita, se vuoi dirci come fare, cosa fare, almeno risparmiaci la morale.

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